Stress lavoro-correlato nei centri educativi
Premessa
In questa serie di articoli chiameremo Centri Educativi quelle strutture entro le quali vengono realizzati progetti di sostegno alla persona, inclusione sociale, contrasto alla marginalità, scoperta e sviluppo delle competenze, ecc. Nello specifico, faremo riferimento a progetti residenziali o semiresidenziali, di ADM (assistenza domiciliare minori), o affini, cioè a interventi che prevedono programmi individualizzati (“puri” o inseriti in contesti di gruppo) in favore di minori (principalmente adolescenti e preadolescenti) generalmente in situazioni di disagio economico / socio-culturale / psicologico.
L’esperienza dalla quale nascono i contenuti che esporremo è quella relativa alla provincia di Monza e Brianza, senza escludere che alcuni dei concetti espressi possano essere applicabili anche in altre realtà. L’articolo è pertanto rivolto a tutte quelle Associazioni di Volontariato, Cooperative Sociali, ecc., che possono riconoscere, in parte o completamente, la propria attività nella descrizione generale sopra esposta.
Un Centro Educativo è, per sua natura, un luogo di interazioni personali complesse e stratificate, e spesso ospita una compresenza (nello spazio, o nel tempo, o in entrambi) di attività ed esigenze anche molto diverse tra loro. In molti casi, all’interno di un Centro Educativo, l’educatore / educatrice è chiamato, di fatto, a occuparsi di una molteplicità di mansioni, non sempre strettamente connesse con quella che si suppone essere la sua figura professionale.
Partendo da queste premesse, e senza addentrarci nelle relative questioni, è possibile comprendere come i potenziali fattori di rischio stress lavoro-correlato nei Centri Educativi siano numerosi, e di varia natura. Essi sono riconducibili, in linea di massima, a tre macro-aree: ambiente fisico, contesto lavorativo, contenuto del lavoro.
In questa serie di articoli ci soffermeremo solamente su alcuni di questi potenziali fattori, cercando di essere sufficientemente specifici.
Aspettativa sociale
Partiamo da una domanda: cosa si intende per educazione?
Nel nostro contesto sociale, il termine è usato in modo quanto mai ambiguo. Tra tutte le possibili risposte che si potrebbero dare, al momento ne prendiamo in considerazione due.
– Risposta 1: L’educazione è il processo attraverso il quale vengono trasmessi ai bambini, o comunque a persone in via di crescita o suscettibili di modifiche nei comportamenti intellettuali e pratici, gli abiti culturali di un gruppo più o meno ampio della società [enciclopedia Treccani]. (concezione “sofista”: trasmissione diretta del sapere da parte di chi “detiene il monopolio della verità”).
– Risposta 2: L’educazione è il processo di “tirar fuori” una conoscenza/competenza, che già esiste nell’individuo. [E-ducere, cioè «trarre da» in latino]. (concezione “socratica”: far nascere dubbi invece che fornire risposte, principalmente attraverso il metodo maieutico).
Le due risposte, anche se forse non sono sempre incompatibili tra loro, partono comunque da presupposti molto differenti. Nel primo caso, abbiamo un’accezione socio-culturale, per così dire, del termine educazione; nel secondo caso, l’attenzione è rivolta alla sfera individuale (che non esclude quella sociale, ma, in questo caso, la “precede” almeno a livello ideale).
Non è nostro interesse discutere le due posizioni prese in esame, ci limitiamo a riportarle come dati di fatto. Chiediamoci, invece, quale concezione di educazione sia predominante, almeno in linea teorica, nel nostro contesto sociale. Lo è la prima, senz’altro. Basti pensare, del resto, al significato che assume il termine nel linguaggio comune: “essere educato” vuol dire, in buona sostanza, essere adeguato.
Un ragazzo / ragazza ben educato è un individuo “normalizzato”: ha compreso bene qual è l’importanza di restare all’interno dei binari sociali costituiti dalla scuola, dal lavoro e dalle “buone frequentazioni”. Ha imparato a non interrompere gli altri quando parlano, a non giudicarli in base al genere, al colore della pelle, all’orientamento sessuale, alla fede religiosa e a quella calcistica. Ha capito che il dialogo, e non l’impiego della forza, è il mezzo con cui risolvere le dispute. Sa che deve tenersi alla larga dalla droga, fare sesso protetto, comportarsi in maniera “ecologica”, rispettare i limiti di velocità e non evadere le tasse.
Nascono però alcune difficoltà, che ci avvicinano al nocciolo della questione sull’aspettativa sociale come fattore di rischio stress lavoro-correlato nei Centri Educativi.
Innanzitutto, come già detto, questa idea del ben educato è, appunto, solo un’idea. I parametri di valutazione dell’educazione di un individuo vengono spesso usati in modo, per così dire, “compensativo” l’uno dell’altro, con il pieno avallo del meccanismo sociale nel suo complesso. Questo emerge chiaramente osservando come comportamenti che sulla carta sono considerati devianti (l’evasione fiscale, l’uso di droghe, la discriminazione razziale e di genere, ecc.), siano nella pratica degli illegalismi largamente diffusi, tollerati, e talvolta incoraggiati, in tutti gli strati sociali della popolazione.
In secondo luogo, l’applicazione rigorosa di tale concetto di educazione rende gli educatori, in sostanza, degli “agenti normalizzatori”. Da loro ci si aspetta quindi “tutto il pacchetto”. Ci si aspetta, cioè, tutta quella serie di risposte preimpostate coerenti con l’obiettivo di formare individui ben educati. Per l’educatore si tratta, dunque, di fornire risposte: sotto forma di buoni consigli, di educazione civica / sessuale / ecc., di buon esempio, di integrazione sociale, di orientamento didattico, di ripetizioni scolastiche, ecc.
Questo della risposta, talvolta, diventa un vero e proprio automatismo per l’educatore, facendolo “sentire in dovere” di intervenire anche in situazioni in cui, di base, non riterrebbe di doverlo fare (per esempio spendendo ore di lavoro per recuperi scolastici “d’urgenza”, anche quando ritiene che ci siano altre priorità – e questo dell’urgenza è un altro fattore di rischio stress).
Insomma, l’educatore è colui che deve (unitamente alla scuola e ai genitori, ma con la differenza che questo è il suo compito specifico) “disciplinare” l’individuo.
Chi attribuisce questa funzione agli educatori? Innanzitutto le istituzioni scolastiche, i Servizi Sociali, i genitori. E qual è la percezione che hanno gli educatori a riguardo?
Queste le parole di Valentina, educatrice con esperienza quindicennale e coordinatrice di un progetto a favore di minori in situazioni di disagio:
– “I Servizi sociali si aspettano che gli educatori si prendano cura del minore, e in parte anche della famiglia (dipende dal progetto in cui è inserito il minore). Si aspettano che gli educatori seguano il minore nell’ambito scolastico, sociale e relazionale. Gli insegnanti si aspettano che gli educatori facciano studiare il ragazzo/a. I genitori si aspettano che gli educatori seguano l’andamento scolastico e facciano svolgere i compiti al figlio/a”.
Una visione, dunque, molto incentrata sulle esigenze di “performance” del minore.
Gli educatori stessi, rispetto al loro operato, possono arrivare ad assumere un punto di vista quasi analogo a quello esposto, finendo talvolta per trascurare motivazioni altre, come vedremo, che li hanno spinti a svolgere tale professione. Può anche succedere che questo avvenga per semplice adeguamento, da parte dell’educatore, alle pressioni del proprio spirito civico o del “senso comune”, ma più facilmente avviene per “necessità altrui”.
Se ciò accade, se cioè l’educatore rimuove le motivazioni originarie che lo hanno condotto a intraprendere la sua carriera professionale, si innalza il suo livello di frustrazione (già molto elevato per via del contatto quotidiano con situazioni di vita difficili ed emotivamente toccanti, della poca chiarezza – spesso – degli obiettivi di lavoro da perseguire, della poca misurabilità dei risultati ottenuti, del frequente senso di isolamento, e altro ancora).
Oltre a questo, come già detto, l’educatore potrebbe non essere affatto d’accordo con una visione del proprio lavoro, e della propria funzione a livello sociale, come quella sopra descritta (qui rientra in gioco l’ambiguità della definizione del termine educazione).
Per comprendere meglio questo punto, è opportuno tener presente del carattere, potremmo dire, “missionario” che questa professione comporta per molti educatori. Le motivazioni che spingono un individuo a lavorare nel settore sociale sono spesso di natura personale, etica, morale, e non sempre sono compatibili con le esigenze che gli vengono sottoposte dai committenti (le scuole, i Servizi Sociali, i genitori, talvolta anche lo stesso “apparato dirigenziale” dell’Associazione o Cooperativa di cui è dipendente o socio).
A titolo esemplificativo, riportiamo di seguito la risposta data dalla sopra citata Valentina, alla domanda “cosa intendi tu con educazione?”.
– “Educazione significa accompagnare e affiancare, anche per un breve periodo, una persona durante il suo percorso di vita e di crescita, aiutandola ad essere più consapevole di sé stessa, delle proprie qualità, dei propri limiti e della propria storia. Educazione è ascolto e relazione; è dare la possibilità alla persona di realizzare cambiamenti, di saper compiere delle scelte, di poter pensare a progettare il proprio futuro e di poter rileggere il proprio passato, anche se doloroso”.
La definizione fornita è, in modo piuttosto evidente, molto più affine alla nostra risposta 2 di quanto non sia invece alla risposta 1, che abbiamo però individuato come predominante nell’aspettativa sociale.
Con questa considerazione abbiamo definitivamente inquadrato la questione dell’aspettativa sociale come fattore (più o meno ingombrante, a seconda del lavoratore) di rischio stress per gli educatori. Nella seconda parte di questo articolo cercheremo di dare, brevemente, alcune indicazioni pratiche per affrontarla, questa aspettativa sociale, in modo da ridurre lo stress ad essa connesso.
Articolo di Federico Mariani