Lo stress da lavoro correlato nei centri educativi | Seconda parte
Nella prima parte di questo approfondimento sullo stress da lavoro correlato nei centri educativi è stato descritta e inquadrata la questione dell’aspettativa sociale come fattore (più o meno ingombrante, a seconda del lavoratore) di rischio stress per gli educatori.
In questa seconda parte cercheremo di dare, brevemente, alcune indicazioni pratiche per affrontarla, questa aspettativa sociale, in modo da ridurre lo stress ad essa connesso.
Obiettivi e priorità
Capita non di rado che a un educatore / un’équipe educativa venga assegnato un progetto (individuale o di gruppo) dagli obiettivi molto generici (es. “sostenere il minore nel suo percorso di crescita”, “stimolare l’interesse e le capacità del minore”, “fornire al minore un confronto con riferimenti adulti positivi”, ecc.). E’ chiaro che, in questi casi, saranno gli educatori stessi a fissare dei sotto-obiettivi concreti, coerenti con quello che ritengono essere il loro “mandato”. In altri casi, invece, i committenti, cioè in genere i Servizi Sociali territoriali o le scuole, sono più espliciti e specifici nelle richieste (es. “rendere più autonomo il minore nella gestione della sua quotidianità”, “far svolgere al minore i compiti scolastici con regolarità”, “far frequentare al minore dei contesti di gruppo”, ecc.).
Gli obiettivi generici, seppur talvolta possano ispirare la creatività e dare al lavoratore una sensazione di grande autonomia, non fanno mai bene. Non favoriscono l’efficacia del lavoro, in quanto non misurabili, e generano confusione, incomprensioni, fraintendimenti. Nessun allenatore, a inizio stagione, raduna la sua squadra negli spogliatoi per dire “quest’anno puntiamo a fare un buon campionato”. I suoi giocatori dovranno pur sapere se l’obiettivo è vincere, arrivare tra le prime cinque, o non retrocedere.
Per questo motivo, qualora gli vengano comunicati obiettivi generici, l’educatore farebbe bene a tradurli e declinarli il prima possibile (dopo un periodo di osservazione non troppo lungo) in obiettivi specifici, andando poi a discutere questi ultimi con il committente.
Questa sarebbe la condizione ideale: poter fissare degli obiettivi che da una parte soddisfino le esigenze del committente, e dall’altra siano coerenti con la propria visione educativa. Ovviamente ciò non è sempre possibile, ma il momento di discussione degli obiettivi è, in ogni caso, cruciale. Si scoprirà magari che l’assistente sociale che ci ha assegnato il progetto, con “sostenere il minore nel suo percorso di crescita”, intende “abituare il minore al rispetto delle regole”, e non “fare in modo che il minore si interroghi sui diritti umani”. Non che, in questo caso, le due cose siano necessariamente incompatibili, ma in tal modo l’educatore avrà ben chiaro cosa il committente si aspetta da lui. Lo costringerà a esplicitare le richieste, e farà emergere eventuali discrepanze di visioni educative (di fronte alle quali l’educatore dovrà poi decidere se adeguarsi o intavolare un’ulteriore discussione).
In un progetto educativo, in genere, gli obiettivi sono molteplici. Ecco allora che risulterà altrettanto importante stabilire quali tra essi sono prioritari (e qui, di nuovo, potrebbero venire a galla delle differenze di vedute). L’educatore farà bene a insistere affinché gli obiettivi siano pochi, chiari, e non vadano in conflitto tra loro (per tempistiche, modalità di intervento, concezioni educative).
Tutto questo processo dovrà poi produrre una documentazione (preferibilmente snella, precisa e schematica), in cui vengono messi per iscritto gli obiettivi di lavoro, le tempistiche e i risultati attesi. Sarà altresì opportuno ripetere il processo sopra descritto in occasione di periodiche verifiche e rivalutazioni degli obiettivi fissati.
In genere, per quanto riguarda gli interventi sui singoli minori, tutto questo viene fatto attraverso la stesura e revisione dei PEI (Progetti Educativi Individualizzati), ma sarebbe opportuno prevedere un iter analogo per ogni tipo di servizio educativo.
Comunicazione
Una volta che i suoi obiettivi di lavoro sono ben definiti, e condivisi con i Servizi Sociali, la scuola e i genitori, l’educatore avrà tolto di mezzo quel potenziale fraintendimento, già descritto, che può nascere intorno alle differenti concezioni di educazione. Che egli sia d’accordo o meno con la prospettiva assunta, saprà a cosa deve puntare il suo operato, e avrà in mano uno strumento che lo guida al di là delle proprie personali convinzioni.
Questo però non è sufficiente per eliminare la pressione sociale subita dall’educatore, anche perché dobbiamo tener conto che il suo lavoro è facilmente soggetto a nuove richieste che si accavallano a quelle precedenti (e non sono sempre in linea con gli obiettivi concordati), imprevisti che impongono “cambi di rotta” (ad esempio situazioni di emergenza all’interno di un nucleo familiare), e opinionismi di ogni genere da parte di genitori, insegnanti e colleghi.
Riteniamo dunque buona prassi, da parte dell’educatore, quella di costruire e consolidare una cultura del proprio lavoro che sia comune con gli interlocutori che si troverà di fronte. Risulterà fondamentale essere chiari e precisi nel comunicare, esplicitare, spiegare e, quando necessario, ribadire periodicamente a genitori e insegnanti non solo quali sono gli obiettivi del progetto educativo, ma anche le ragioni delle scelte compiute in determinate circostanze (tipica, ad esempio, è quella del “mancato svolgimento dei compiti”).
Una maggiore efficacia viene raggiunta quando questo genere di comunicazione assume un carattere continuativo, non episodico. Se infatti le premesse (gli obiettivi) sono già state “digerite”, sarà molto più facile, per l’interlocutore di turno, comprendere le scelte di lavoro fatte dall’educatore.
Conclusioni
Il processo che abbiamo descritto, di chiarificazione e condivisione del lavoro da svolgere (e/o in svolgimento) da parte dell’educatore con i vari committenti, non produrrà, crediamo, un cambiamento radicale nel loro atteggiamento. Quel che cambierà, invece, sarà la percezione che l’educatore stesso ha del proprio lavoro. Egli ne conoscerà nel dettaglio le premesse, saprà circoscrivere le sue aree di intervento, potrà motivare e documentare i processi che decide di attivare (magari a discapito di altri). In sostanza, padroneggerà il lavoro che deve fare, senza lasciarsi “strattonare” emotivamente dalle continue richieste che gli vengono poste, potendole lui per primo inquadrare come pertinenti o non pertinenti (dovrà comunque, naturalmente, essere in grado di valutare opportunamente le situazioni di urgenza / emergenza). L’educatore, inoltre, non si sentirà in colpa per non aver fatto qualcosa che non era chiaro, neppure a lui, se fosse di sua competenza o meno, ed eviterà che l’aspettativa sociale si trasformi in “ricatto morale”, intenzionale o meno.
Chiudiamo con un piccolo, ma speriamo significativo, esempio. Scambio di battute tra la mamma di un ragazzino tredicenne e l’educatore incaricato di svolgere con lui attività individuali una volta alla settimana:
- Mamma di Luigi: “Stamattina, al colloquio con gli insegnanti, la prof. di matematica mi ha detto che Luigi va malissimo sia in algebra che in geometria. Fammi questo piacere: per i prossimi tre / quattro martedì fagli studiare matematica invece che andare in biblioteca e al parco”. [pressione sociale del genitore sull’educatore, a seguito di pressione sociale dell’insegnante sul genitore]
- Educatore: “Capisco, signora. Però, vede, si ricorda il Patto Educativo che abbiamo firmato quando ho iniziato a lavorare con Luigi? Il Patto dice che, durante questi primi quattro mesi, l’obiettivo principale del mio lavoro è quello di aiutare suo figlio a esprimere meglio le proprie opinioni e le proprie emozioni, e in biblioteca Luigi si esercita con me nella lettura e nel commento di libri e articoli di giornale. Il Patto dice anche che l’obiettivo secondario del mio lavoro è far svolgere a suo figlio un po’ di attività fisica, e per questo andiamo al parco a fare esercizio. Il lavoro che mi è stato chiesto di fare, per adesso, non c’entra nulla con le ripetizioni di matematica”.
Così semplice? No. Soprattutto quando ci sono di mezzo richieste apparentemente “legittime”. La risposta data dall’educatore è, volutamente, non verosimile. Innanzitutto è poco empatica, perché liquida con un banale “capisco” la grande mole di impliciti emotivi e sociali che stanno alla base della richiesta da parte del genitore. In secondo luogo, implica che un lavoro come quello dell’educatore possa essere svolto “per compartimenti stagni”. Cosa che, ovviamente, non è.
Immaginiamo invece che l’educatore, questa risposta (o una analoga), la pensi solamente, per esprimersi poi con parole più concilianti (ma altrettanto chiare, ribadendo anche quali sono i suoi obiettivi di lavoro), con intento di mediazione, proponendo un compromesso accettabile. Bene, la risposta pensata, mettendo subito in relazione la richiesta imprevista / improvvisa con gli obiettivi di lavoro fissati, condivisi e “coltivati”, consentirà all’educatore di avere un saldo punto di riferimento per affrontare e gestire la pressione sociale.
Articolo di Federico Mariani